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Dopo lunga gestazione editoriale sono felice di annunciare ai lettori l'imminente uscita del libro pedante La crisi narrata. Romanzo dei capitali e crepuscolo della democrazia. Il libro sarà disponibile nelle librerie e negozi online a partire dal 23 novembre.

Ne La crisi narrata sono raccolte le riflessioni dei primi due anni del blog, ampliate, ordinate e riviste lungo il filo conduttore del «romanzo» manipolatore che informa e deforma la comunicazione politica. Un grazie particolare va a Vladimiro Giacchè e Alberto Bagnai che mi hanno spronato a dare forma stampata al lavoro iniziato sul blog. Il prof. Bagnai è inoltre autore di una pregevole prefazione al testo e mi ospiterà a Montesilvano in occasione del convegno annuale di a/simmetrie per la prima presentazione al pubblico dell'opera.

Segue un'anteprima.

Premessa

Questo libro nasce dall’esperienza e dai materiali del blog Il Pedante (http://ilpedante.org). Quando lo inaugurai, nei primi mesi del 2015, avevo pochi lettori e qualche amico con cui un anno prima mi ero divertito a realizzare il sito Facciamo Come (http://facciamocome.org), un generatore di «supercazzole esterofile». Il generatore faceva il verso ai tanti italiani che sui giornali, sui social network e dai tavolini dei bar disprezzano il loro Paese e puntano il dito contro i loro connazionali per raccontare la crisi economica che ci affligge. Quel viaggio tragicomico tra i luoghi comuni di un’opinione pubblica che addossa a se stessa e al prossimo le responsabilità dei propri mali mi portò presto a interrogarmi sull’ingranaggio dialettico in cui si fonda il fenomeno, e a ipotizzarne gli obiettivi. Quello del «facciamo come» si rivelò un punto di partenza senz’altro fertile, per il contributo che la retorica antinazionale apporta a quell’ingranaggio e a quegli obiettivi.

Gli spunti non mancavano. Tante persone più preparate di me, in Italia e all’estero, avevano già condiviso analisi e pubblicato articoli e libri. I social network ospitavano dibattiti tra individui della più varia estrazione professionale, culturale e politica. I temi macroeconomici e finanziari dominavano, come è nello spirito dei tempi, sicché era necessario coglierne i fondamentali per riconoscervi un mascheramento che rimandava a strati antropologici più profondi. Lo stesso fronte dei tecnici si divideva tra chi esauriva la lettura degli eventi nel criterio economico e chi vedeva in quel criterio il pretesto contingente e distorto di lotte più antiche. Da quei temi occorreva risalire ai conflitti già tante volte illustrati dalla storia e dai filosofi: la lotta tra le classi, la prevalenza del forte sul debole, la dialettica di capitale e lavoro, l’aspirazione dei popoli all’autodeterminazione e alla libertà dal bisogno, la corsa all’accumulazione delle ricchezze, la guerra come ultimo sbocco per far ripartire la giostra. Ma più di tutto mi interessava cogliere le verbalizzazioni, i miti e le maschere retoriche che nel discorso pubblico trasfiguravano quei conflitti facendoli apparire come incidenti di un programma politico e civile altrimenti votato al successo. Mi interessava la retorica del consenso e dei dominatori, fossero essi una classe sociale o un’idea, un manipolo di burattinai o il bisogno di prevalere che seduce tutti per annichilire tutti. Mi interessavano, in particolare, i modi in cui quei messaggi si facevano cari alle loro vittime e le chiamavano a collaborare alla loro miseria, indirizzandone le difese e la rabbia contro se stesse. In un’epoca illusa della propria laicità, quella retorica non si esprimeva più utilizzando le categorie del Cielo ma arruolava la scienza e la tecnica, la cui prostituzione si rivelava subito dopo nella persistenza verbale del peccato e della vergogna, del sacrificio e dell’espiazione. Il blog nasceva da lì: dall’esigenza di «raccontare il racconto» con cui la ricchezza reclama un primato etico e giuridico (plutocrazia) presentandolo come una necessità (tecnocrazia) e confezionando una visione della realtà conforme allo scopo (il romanzo).

Nel libro si è fatto ampio uso degli articoli già pubblicati sul blog, sicché il lettore potrebbe lamentare una certa difformità stilistica e di tono. Altri materiali sono inediti e in alcuni casi assolvono alla funzione di dare una direzione ai diversi temi affrontati e di ricondurne la varietà a trabocchetti dialettici ricorrenti. Pur con un filo conduttore che si propone di legare il tutto, il testo non è stato pensato per essere letto da capo a fine. Quasi tutti i capitoli sono autonomi e si prestano alla consultazione singola, secondo gli interessi del lettore.

Alla varietà dei temi corrisponde anche una varietà di giudizi e di interpretazioni di cui rivendico la titolarità e che non chiedo ai lettori di condividere in tutto. Sarebbe anzi grave se ciò avvenisse. Lo scopo di queste riflessioni non è quello di disseminare un pensiero politico ma di promuovere il rifiuto della comunicazione identitaria e preincartata, quella dove si aderisce a un messaggio per godersi il tepore del gregge senza chiedersi chi sia il pastore.

Le prime persone che desidero ringraziare sono i lettori del blog, il cui numero crescente si è accompagnato nel tempo a una qualità culturale più che crescente. Grazie ai loro commenti ho imparato, studiato, affrontato nuovi argomenti e in più di un caso mi sono corretto. Tra questi ringrazio distintamente il professor Alberto Bagnai e Vladimiro Giacché, due maestri a cui devo non solo buona parte degli strumenti culturali utilizzati nei testi qui prodotti, ma anche la diffusione dei miei articoli e l’idea stessa di pubblicare un libro, che senza di loro non avrebbe visto la luce. Ringrazio il professor Vito Plantamura e l’avvocato Valerio Donato, assidui e preziosi commentatori del blog, e l’avvocato Michele Beretta, che hanno pazientemente riletto le bozze, risolto i miei dubbi e dispensato utili consigli. Ringrazio infine chi mi ha sostenuto con affetto nella lunga gestazione e redazione di queste pagine.

Le dedico a loro.


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martedì 7 novembre 2017

C'era una volta la favola...

(...come forse saprete, e questa è la prefazione...)

C’era una volta... – Una regina! – diranno subito i miei lettori, per evitare gli strali del politicamente corretto, che trafiggerebbero senza remissione chi, cedendo a un impulso sessista, avesse d’istinto pensato al più classico “re”. No, cari amici: c’era una volta la favola, “breve vicenda il cui fine è far comprendere in modo piano una verità morale” (come riporta Google...). Ecco: questa era la favola. Si sapeva cosa fosse, si sapeva a cosa servisse: a proporre (e se del caso imporre) al destinatario una “verità morale”, che poi significa: a decidere chi fosse buono (e meritasse una ricompensa) e chi fosse cattivo (e meritasse un castigo). I genitori, o i nonni (e, naturalmente, le nonne) raccontavano favole ai bambini per farli diventare “buoni” proponendo loro esempi “virtuosi”, o almeno per farli addormentare cullandoli con la nenia di un resoconto confortevole nella sua prevedibilità. Due obiettivi (ammansire o addormentare) che, per chi gestisce il potere a qualsiasi livello (dalla famiglia all’impero), sono sostanzialmente equivalenti: entrambi assicurano che il manovratore non venga disturbato.

C’era una volta la favola, e oggi non c’è più.

Come genere letterario, difficilmente potrebbe aver successo presso il raffinato e disincantato pubblico odierno, che così tante rivoluzioni culturali (dal ’68 in giù) hanno istruito a ostentare insofferenza verso il principio di autorità e verso il buon senso. Come strumento di gestione della vita familiare, è stata soppiantata da dispositivi che il progresso tecnico rende accessibili anche ai meno abbienti (la televisione prima, poi i videogiochi, ora gli smartphone). Il progresso miete vittime, e fra queste, lo capite bene, miei cari lettori, era destino si trovasse questo relitto di un passato patriarcale, questo residuo di un mondo permeato di facile moralismo. In un mondo di persone che la sanno lunga, a cui non la si fa, perché sono istruite, leggono i giornali, e i libri consigliati dai giornali, la favola doveva soccombere.

Questo in apparenza.

La realtà è un’altra: la favola oggi, dall’essere una delle possibili dimensioni narrative, con dignità pari, o forse lievemente inferiore, a quella di tante altre (il romanzo, la novella, il poema, ...) è diventata la dimensione narrativa par excellence, il genere letterario egemone, rinascendo dalle proprie ceneri con identica struttura (un buono, un cattivo, una ricompensa, una punizione), ma nome diverso: narrazione, o, addirittura, narrativa. Sostantivo, questo, che in italiano indica un genere letterario (contrapposto a saggistica), ma che nel linguaggio cialtrone dei nostri operatori informativi ricorre come traduzione maccheronica dell’inglese “narrative”: sostantivo che significa “racconto”, e che, nelle lande anglofone ha sostituito il più esplicito “(fairy) tale”, così come da noi, col consueto ritardo di fase, di per sé indice di una spaventosa subalternità culturale, “narrazione” ha sostituito “favola” (o “storia”).

La saggezza profonda dell’etimologia pone questo scarto lessicale in una prospettiva interessante. Favola viene dal latino fari, parlare: l’adulto parla all’infante, dove l’in-fante è, appunto quello che (ancora) non parla. Narrazione ha la sua radice in gnarus, l’esperto, che parla all’ignarus, l’inesperto. Con questa evoluzione (se possiamo considerarla tale) la legittimazione della voce recitante compie un salto di qualità: nella favola esprime il normale avvicendarsi di fasi dell’esistenza (chi non parla, parlerà: e racconterà favole), nella narrazione cristallizza uno status (chi è arrivato inesperto – di economia, di bioetica, di geopolitica – all’età adulta difficilmente potrà evolvere ad esperto: e continuerà ad ascoltare narrazioni).

La narrazione si presenta così, in primo luogo, come tirannide degli esperti: è una favola che impera sulla nostra esistenza, ne detta gli obiettivi, ne definisce gli ambiti, ne struttura i valori morali, ne circoscrive – sterilizzandola – la dialettica politica. Esopo è morto, Fedro pure, e Lafontaine non si sente molto bene: eppure, mai come oggi la cicala e la formica ammiccano dai titoli di qualsiasi quotidiano, erigendo il recinto all’interno del quale il dibattito sulle sorti di interi paesi deve svolgersi (per insondabile e insindacabile decisione dello gnarus), e assegnando in modo tanto perentorio e schematico quanto subliminale torti e ragioni in vicende complesse; vicende che una volta, prima di emanciparsi al grido di “vietato vietare”, i cosiddetti intellettuali cosiddetti progressisti si sarebbero guardati bene dall’affrontare in termini così intellettualmente sciatti, così pericolosamente semplicistici. Una vittima, il progresso, l’ha fatta, ma non è la favola: è, in tutta evidenza, il senso critico degli intellettuali progressisti, che vicende impossibili da riassumere in questo breve scritto introduttivo hanno spinto lungo una ripida china e scivolosa china, che dal materialismo storico li ha condotti al moralismo isterico.

La narrazione è appunto la traduzione in prassi del moralismo, di quella strana degenerazione ideologica, assolutamente bipartisan, che brandisce come un’arma una visione unilaterale delle relazioni umane, a partire da quelle economiche, con il risultato (se non con l’intenzione) di presentare come unici colpevoli del proprio destino gli sconfitti di un sistema economico tanto instabile quanto ingiusto. Nel mondo naturale la cicala può essere tale, sulle fronde, a prescindere dall’esistenza di un formicaio fra le radici dell’albero. Il mondo sociale, economico, è un pochino diverso: non si può essere il debitore-cicala di nessun creditore-formica. Ogni debito è necessariamente un credito, e quindi un cattivo debito è in re ipsa un cattivo credito. In economia, come ora anche gli economisti più ottusi e i giornalisti più cialtroni sono costretti ad ammettere, il torto (se tale è) di essere cicala non può essere addossato a una sola parte: a debitore imprudente corrisponde creditore irresponsabile, e la logica liberale, di mercato, invocata dai moralisti esigerebbe che entrambi venissero sanzionati. Ma, appunto, la narrazione (cioè la favola) ha questo, fra i suoi assi portanti: quello di ricondurre i processi sociali e politici a una rappresentazione naturalistica, non solo nel senso più immediato (quello dell’uso di metafore provenienti dal mondo animale: cicale, formiche, falchi, colombe, porci – i famigerati PIGS...), ma anche in senso epistemologico. Il suo scopo, cosciente o meno, è quello di depurare il racconto di fatti sociali dalla loro dimensione politica, cioè di escluderli a priori dal dominio delle possibili scelte collettive (in particolare, di quelle democraticamente espresse), riconducendoli a una preordinata assegnazione di torti e ragioni, di cui la politica deve semplicemente prendere atto. Il debitore è cattivo, quindi il creditore è buono: il primo va punito, il secondo tutelato, e la narrazione oblitera qualsiasi riflessione sulla sostenibilità (politica, sociale, ambientale) di questo capitalismo “testa vinco io, croce perdi tu”.

Col vostro permesso mi concederò da qui in avanti il vezzo di resistere alle mode, una frivolezza che spero mi perdoniate, e di chiamare le cose col loro nome: consentitemi quindi di chiamare la narrazione (o narrativa) col suo nome: favola. Una innocua operazione di chiarezza che ci aiuterà a orientarci.

L’egemonia della favola nella prassi dei mezzi di comunicazione non è un dato accidentale, ma la conseguenza necessaria dell’involuzione paternalistica subita dalla dialettica politica, nel nostro come negli altri paesi “avanzati”. Un’involuzione, a sua volta, correlata allo sbilanciamento dei rapporti di forza a svantaggio delle classi lavoratrici, con l’affermarsi del governo dei ricchi, di quella che l’autore ha scelto di definire plutocrazia, recuperando un termine logorato da un certo uso propagandistico. Se dagli operatori informativi ormai ci sentiamo raccontare sempre e solo favole, è perché la classe dominante è riuscita ad imporre l’idea che lo Stato, “che è come una famiglia”, deve essere guidato dallo gnarus di turno (il “tecnico”), che sa qual è la cosa giusta da fare, e quindi deve procedere, incurante del consenso popolare (cioè della democrazia), esattamente come il buon padre di famiglia deve, in molte circostanze, ignorare le bizze del fanciullino riottoso, corredando la fermezza nel somministrare la giusta (?) punizione con un più o meno ipocrita “fa più male a me che a te” (ricorderete le lacrimucce di una nota riformatrice...). Naturalmente, se lo gnarus può praticare, o addirittura ostentare, disprezzo verso la volontà del popolo sovrano, se può proporsi come obiettivo quello di fare il bene (?) del popolo contro la volontà di quest’ultimo, è perché trae da altro la sua legittimazione: appunto, dal potere economico che di certe prassi di governo, e di certe favole, è il più immediato beneficiario.

Ci sarà pure un motivo se, dopo decenni di riforme che dovevano fare gli interessi della maggioranza (spesso contro la sua volontà), a partire dal divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia del 1981 (che doveva tutelare i meno abbienti dall’inflazione “che erode il loro potere d’acquisto”), e passando per le varie riforme del mercato del lavoro “che faciliteranno l’inserimento dei giovani”, e naturalmente per l’entrata nell’euro “che ci avrebbe protetto”, disuguaglianza, disoccupazione e fragilità finanziaria in Italia hanno raggiunto livelli precedentemente impensabili! In effetti, per chi analizzi i fenomeni economici partendo dai dati, e in particolare per chi si ponga, come chi scrive, in un’ottica di lungo periodo, la domanda che sorge spontanea è proprio come sia possibile che un simile degrado delle condizioni di reddito relativo e assoluto sia politicamente sostenibile, come sia possibile che gli elettori non si ribellino a un sistema nel quale i sacrifici, le lacrime e sangue ritualmente chieste dai governanti, oltre a palesarsi regolarmente come inutili, sono così ingiustamente distribuite. La risposta, naturalmente, è nella favola che i media ci raccontano, una favola che poggia sulla rappresentazione di un perenne stato di urgenza, su quella crisi perpetua che i governanti ci assicurano di voler risolvere, ma che in realtà, come il testo di cui ci occupiamo lucidamente mostra, alimentano, almeno in termini narrativi, perché in essa trovano il più efficace strumento di dominio.

Ecco: questo testo, caro lettore, ti insegnerà (se vorrai impararlo) in che modo i media attivamente contribuiscano a rendere accettabili le ingiustizie, come costruiscano la favola che circuisce l’ignarus, quali corde archetipiche vadano a toccare per aggirare lo spirito critico del pubblico, quali strumenti retorici usino per persuadere i dubbiosi, a quali strumenti dialettici ricorrano per neutralizzare gli interlocutori evitando scrupolosamente di entrare nel merito delle loro obiezioni. In questo senso, porrei questo testo in una ideale linea di continuità con Gli stregoni della notizia di Marcello Foa e con La fabbrica del falso di Vladimiro Giacché: due testi che, a vario livello, si pongono il problema di come il sistema dei media sia diventato, oggi, un effettivo ostacolo per l’esercizio della sovranità democratica, e questo certo non per cattiveria d’animo, ma per quella ovvia subalternità rispetto a chi lo finanzia, della quale, ex multis, si era già occupato Gramsci, quando ricordava all’operaio che “il giornale borghese è uno strumento di lotta mosso da interessi che sono in contrasto coi suoi”. Che gli interessi particolari esistano, e che chi li incarna cerchi di difenderli, si chiama lotta di classe, e non è una teoria del complotto: è il sale della storia. La democrazia, il governo del popolo, si fa plutocrazia, governo dei ricchi, perché il mondo del popolo è una rappresentazione dei ricchi: chi ha in pugno i media costruisce il racconto della realtà a propria immagine e somiglianza. Non a caso in questi giorni di autunno girano per Roma le camionette di un’università per ricchi a pubblicizzare corsi di “giornalismo narrativo”! Le decisioni della maggioranza sono così condizionate da una visione del mondo che una minoranza forgia nel proprio esclusivo interesse. Un interesse, aggiungo, a priori lecito, al pari di quello della maggioranza, ma che sovverte la dialettica democratica nel momento in cui si rivela particolarmente difficile da disciplinare con meccanismi di controllo e di bilanciamento.

Se ne Gli stregoni della notizia il giornalista Foa si poneva in una prospettiva di tecnica della comunicazione, smascherando i principali accorgimenti usati dai narratori (gli spin doctor), se ne La fabbrica del falso l’economista Giacché smontava la favola riscontrandone nei dati la falsità, troppo sistematica per non essere intenzionale, in questo testo l’autore fa un lavoro in qualche modo preliminare: quello di ricondurre la favola ai suoi elementi costitutivi essenziali: trama, retorica e personaggi. Questo lavoro di decostruzione è prezioso, perché permette al lettore di individuare la favola, insomma: di capire, senza ricorrere a competenze specifiche, quando chi gli parla lo sta prendendo in giro (magari involontariamente, per mero spirito gregario rispetto alle linee tracciate dalla grande stampa internazionale). I meccanismi narrativi sono, prima e più dei contenuti, il suggello della falsità di quanto viene narrato, e la logica elementare, in modo più efficace di qualsiasi sofisticato bagaglio culturale, basta a diffidare della favola. Non occorre un Nobel in biologia per capire che le cicale non parlano (soprattutto, non con le formiche!), e non occorre un dottorato in economia per capire che i tagli dei redditi individuali (pensioni, salari) non fanno crescere il reddito aggregato. Resta da capire quindi perché molti, anche intelligenti, anche (anzi: soprattutto) colti, credano a simili favole, e se ne facciano ecolalici divulgatori, amplificando, con la loro auctoritas più o meno fondata e riconosciuta di intellettuali, il messaggio che il potere, quel potere che loro per lo più osteggiano a parole, ma del quale si fanno strumenti nei fatti, vuole diffondere. E anche su questo punto, sul quale tanti si sono esercitati, il testo offre prospettive interessanti.

Decenni di politiche articolate sull’uso di disoccupazione e disuguaglianza come strumenti di disciplina delle rivendicazioni salariali hanno consegnato gli stati a potentati economici il cui più immediato assillo è evitare che la democrazia funzioni, che la maggioranza eserciti il diritto di tutelare i propri interessi. La favola è viva, e lotta insieme a loro. Possa questo testo aiutare gli oppressi a emanciparsi, riappropriandosi, come primo necessario passo di un percorso di lotta, della capacità di raccontare il mondo con un linguaggio autonomo da quello degli oppressori.

(...poi ci sarebbe quest'altro dettaglio, e di posti a prezzo scontato ne sono rimasti drammaticamente pochi: suggerirei di non far correre la voce, e rassicuro i miei congeneri: avranno anch'essi la loro parte...)

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martedì 7 novembre 2017
La cicala e la formica
...fra atroci sofferenze sto facendo la peer review del libro di due colleghi euristi, cui voglio molto bene nevertheless, e che si occupa dell'uscita dall'euro. Di libri così ce ne vogliono, comunque, perché occorre che dell'argomento si parli. Oggettivamente, dire qualcosa di più di quanto dissi nel Tramonto dell'euro è impossibile. Però si può sempre dire qualcosa di meno... anche se forse non si dovrebbe esagerare!

Quello che mi stupisce e mi costerna nel modo in cui i miei colleghi affrontano l'argomento euro è la stupefacente leggerezza con la quale si dispensano dall'osservare due principi cardine della nostra, anzi: della loro, scienza: quello secondo cui "non ci sono pasti gratis", e quello secondo cui la flessibilità del prezzo garantisce l'equilibrio sui mercati.

Per l'economista standard, quello del credito è un mercato come quello di val Melaina, dove, invece delle patate, si scambia un bene chiamato "risparmio". Contro questa teoria,
la teoria dei fondi mutuabili, ci ha messo in guardia (facendo l'errore di credere che io ne avessi bisogno) Sergio Cesaratto nel suo bel libro (poco male: è ancora vivo)! Avrei quindi molte riserve circa la sua rilevanza, ma resta il principio generale che per loro, cioè per gli euristi, il mondo funziona così: domanda, offerta, equilibrio a un dato prezzo (e se si scambia denaro, a un dato tasso di interesse).

Ora, a fronte di questi due ovvi principi, è veramente delirante l'ossessione psicotica con la quale, dopo tutte le catastrofi cui il credito facile ci ha condotto, certi colleghi continuino a dirci che i bassi tassi di interesse sono stati una grande opportunità che abbiamo sprecato bla, bla, bla... Finché cose simili le dice un giornalista,
transeat: non è competente, e comunque è pagato per seguire una linea editoriale, quindi a lui, al gazzettiere, non puoi chiedere di capire che se un prezzo viene spinto (in qualsiasi modo e per qualsiasi motivo) al disotto dell'equilibrio, ciò provocherà fatalmente uno spreco del bene prezzato, un sovraconsumo, e, nel caso del credito, un sovraindebitamento. Insomma: è antieconomico, ma soprattutto è stupido, dire che un sistema nel quale il capitale è troppo a buon mercato avrebbe favorito un uso più efficiente del capitale, o dire che un sistema nel quale indebitarsi ha costi irrisori avrebbe favorito comportamenti virtuosi, astensione dal credito. Bisogna essere proprio ottusi per non rendersi conto di quanto anti-economico sia questo ragionamento. Puoi anche pensare che il risparmio sia un bene come le patate, ma per pensare addirittura che sia un bene di Giffen ci vuole una mente molto mal congegnata.

Ed è qui (riallacciandomi al post precedente) che si vede quanto i gazzettieri siano squallidi, nel loro insistito abuso di metafore trite e ritrite, prive di aderenza con i precedenti letterari cui si ispirano!

Prendiamo il caso della cicala del sud e della formica del nord. Quante volte abbiamo sentito ripetere questa solenne stronzata! Ma... qualcuno ha letto La Fontaine? Cosa dice, La Fontaine, della formica?

La Fourmi n'est pas prêteuse ;
C'est là son moindre défaut.

Ecco: ora a voi sembra che la Germania non sia stata  prêteuse? Ganz im Gegenteil!
Da un'altra favola sappiamo che il centro presta largamente, inonda di liquidità la periferia (e sappiamo anche il per come e il perché di questo fiotto di capitali: quelli, sì, una droga, quelli, sì, che schizzano...), e così ha fatto la Germania.

Quindi la narraFFione (non è un errore di pronuncia: è un errore politico), oltre ai profili di squallore delineati nel post precedente, ne ha uno che secondo me supera e travolge tutti gli altri: nella maggior parte dei casi denota una sesquipedale ignoranza del narratore. Ignoranza dei fatti economici (e fino a qui
transeat), ma anche, e soprattutto, ignoranza delle verità letterarie. Non puoi definire "formiche" quei cialtroni vili e corrotti che hanno prestato senza alcun scrupolo e senza alcuna attenzione al sud il saldo finanziario slealmente accumulato col loro triplice dumping valutario, salariale e ambientale. Non puoi. Se i tedeschi fossero veramente stati formiche non avrebbero prestato: la formica non presta. La crisi non ci sarebbe stata.

Provate a chiedere a un gazzettiere di dirvelo con parole sue! Non ce la farà nemmeno se lo pagaste. E questo è un pezzo non irrilevante del nostro problema...